RIFLESSI #1 (del perchè e del per come il pane buono non sia considerato mai abbastanza)

Ad Aprile di quest’anno (2023) sono stata per qualche giorno a Madrid. Sono state varie volte in Spagna, quindi ho presente cosa la riguarda a grandi linee dal punto di vista culinario, ma non ero ancora stata a Madrid e con mia felice e inattesa sorpresa, sia nelle Taberne (che sono come le nostre trattorie) che nei locali più In, il cestino del pane era sempre un Signor cestino. Nella maggior parte dei locali la tovaglia non esiste quindi non si paga il coperto ma si paga il pane che io ho ritrovato essere sempre di buona qualità. Si parla di pane di grano tenero, artigianale, sicuramente non prodotto dal locale stesso, fatto con pasta madre. La cosa mi ha piacevolmente stupito e fatto pensare al fatto che la qualità di quel pane era molto superiore a quella che normalmente posso ritrovare in un qualunque locale Italico. Nel frattempo, al mio ritorno, ho avuto occasione di scambiare due chiacchiere con un caro amico, il buon Matteo, che ha vissuto per anni in Regno Unito dove era anche negli stessi giorni in cui io ero in quel di Madrid. Si trovava lì presso alcuni amici proprietari di panetterie artigianali che fanno dell’ottimo pane a pasta madre e mi diceva che il pane andava davvero molto forte. Anche in quel caso, sono rimasta piacevolmente colpita soprattutto perchè, da frequentatrice del Regno Unito fino a qualche 15 anni fa, il pane di mio ricordo e il solo che io abbia mai mangiato era quello in busta di plastica che si usa per farsi un toast.

Detto questo, la domanda, che poi ho condiviso anche ad alcuni amici di pane. è sorta in un attimo: in un paese come la Spagna dove il pane si mangia da mattina a sera ho ritrovato un pane di qualità mediamente buona e certamente più che buona nei locali; in un paese come il Regno Unito che non vanta certo tra le presenze in tavola il pane come tradizione, le panetterie che fanno il sourdough bread fanno furore e noi? Perchè qui il pane buono, quello buono per davvero, stenta così tanto a prendersi il giusto spazio? perchè si fa ancora così fatica ad acquistarlo, a trovarlo sulle tavole dei ristoranti, nei negozi?

Potrebbe aprirsi una lunga discussione, mi rendo conto, ma cercherò di essere breve e di riassumere alcune delle considerazioni e conclusioni a cui sono arrivata in questi giorni in cui i miei pensieri ho potuto per fortuna condividerli con chi ha maturato altre esperienze e in altre parti d’Italia.

Parto dalla conclusione: si tratta di un fattore culturale.

E parto dalla mia esperienza personale, che ho scoperto non essere comunque solo mia. Nella mia generazione, che è quella degli anni 80, e certamente in quella dei miei genitori e dei miei nonni, il pane in tavola non era quello fatto in casa nè quello con lievito madre. Era banalmente il pane del forno che di solito era “panaccio” comune fatto con farine bianche e lievito di birra che ancora oggi caratterizza molti forni “tradizionali” (e nessuno me ne voglia se l’ho definito panaccio). Stop. Era pane che si usava poi da mettere nel latte o per farci pangrattato perchè la sera era già secco e duro. Io sono quindi la prima che ha sempre vissuto il pane come qualcosa da acquistare tutti i giorni, da mangiare nel giro di un giorno e poi da riciclare in qualche modo se si poteva. Sono la prima che non si è mai posta il pensiero di cercare un’alternativa fino a che qualcuno mi fece anche scoprire che del pane diverso esisteva (anche se era ancora ai suoi albori) e che era differente in tutto: gusto, consistenza, benefici per il mio corpo, modo di farlo ecc. Non è stato difficile perchè era buono e anche se dovevo fare quello sforzo in più per conservarlo e gestirlo, era anche un piacere farlo perchè potevo avere il pane in tavola tutta la settimana e non essere tutti i giorni al forno o al supermercato se avevo voglia di una bruschettina. Mi rendo conto che ci è voluto un pò, ci è voluto scoprire, capire e certamente il tempo che ci ho messo per arrivare a far diventare il pane buono buono il mio pane è stato breve perchè a me è piaciuto subito tanto. Mi sono resa conto che aveva del “buono” in sè anche se dover studiare trattati di nutrizionismo. Mi bastava intrattenermi al banco al mercato e fare due chiacchiere con chi lo produceva.

Detto questo, ora che non siamo più negli anni 80 ne 90 e che io sono dall’altra parte del banco a fare la parte della fornaia, mi rendo conto che vendere un pane di grandi dimensioni nell’era delle monoporzioni, che chiedere alle persone che lo acquistano anche di gestirlo un pò per conservarlo al meglio nell’era del “non ho tempo, mi manca il tempo, devo correre, ho mille impegni”, che farlo solo due volte a settimana dovendolo prenotare e concordando un orario per le consegne nell’era del cibo pronto, disponibile 7 su 7 24h e consegnato a casa in qualsiasi orario e condizione, non sia proprio la più facile delle soluzioni. Me ne rendo conto e mi rendo quindi conto che forse la conclusione a cui siamo giunti, parlandone, io, Damiano (di Anticamente) e Manuel (di Infarinatura), sia effettivamente un fattore culturale. Se non cambia quel fattore forse non può cambiare il risultato e il pane buono buono rimarrà ancora relegato all’acquisto sporadico fatto al mercatino di turno, al “è troppo caro” dei ristoratori, al “eh ma diventa duro in un attimo o mi fa la muffa” di chi lo porta a casa. Mi rendo anche conto che non sia facile se ho sempre mangiato una ciabatta o una michetta, affrontare un pane di grani antichi o uno di segale ma mi sento anche di dire che non si sia nemmeno così difficile perchè stiamo pur sempre parlando di pane buono, quello buono per davvero, fatto con scrupolo, attenzione e coscienza non solo per il corpo ma anche per l’ambiente che sono due binari che corrono paralleli e rispetto ai quali non si può più permettersi di non prestare attenzione (o almeno io personalmente non ce la faccio).

E’ ormai imprescindibile Mangiare con la testa (come dice Damiano di Anticamente), concetto che mi piace non solo tanto ma che credo sia la vera conclusione di questa prima riflessione di oggi, perchè contiene in sè quella consapevolezza del cibo che è così necessaria sia per il nostro corpo che per quello che ci circonda che è oramai innegabile. Quello che decidiamo di mettere in tavola e e nel nostro corpo così come la Terra Madre se ne fregano del “giusto rapporto qualità prezzo” perchè l’unica logica che considerano non è quella del “giusto” ma quella de “il meglio” (il meglio possibile per il corpo e per la Terra che lo genera). Se ci chiedessimo cosa vogliamo davvero e cosa vogliamo per il nostro benessere sono certa che rispoderemo tutti IL MEGLIO e allora forse a quel meglio bisogna iniziare a pensarci e quindi a mangiare con la testa.

Per ora lancio e vi lascio con questa riflessione. Per chiunque abbia voglia di proseguire, ci si risente su questi schermi quando sarà. Io vado a far decantare ancora le idee non prima di aver ringraziato i miei compari di pensiero Damiano Visentin del progetto di pane Anticamente Lab di Roncade TV e Manuel Perego di Infarinatura Lab Art di Roma,

Ore vuar gente.

23/04/23 8.06 am

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